ATLAS #4 La Stranger Logic di Trump in Siria
Nell’edizione di Atlas di questa settimana parliamo di:
CAMERUN: liberato il leader dell’opposizione Maurice Kamto
HONG KONG-CINA: nuova escalation di violenza dopo il divieto di utilizzo delle maschere
Il focus di questa settimana, a cura di Lorenzo Marinone, Responsabile Desk Medio Oriente:
La Stranger Logic di Trump in Siria
CAMERUN: liberato il leader dell’opposizione Maurice Kamto
Lo scorso 3 ottobre, il Presidente della Repubblica Paul Biya ha lasciato cadere tutte le accuse imputate a Maurice Kamto, leader del partito di opposizione Movimento per la Rinascita del Camerun (MRC) ed ha autorizzato il suo rilascio dopo 9 mesi di carcere.
Kamto era stato incarcerato a gennaio con l’accusa di incitamento alla rivolta e per aver guidato una serie di proteste che denunciavano presunti brogli elettorali nelle elezioni presidenziali di ottobre 2018, vinte da Biya con autentico quanto sospetto plebiscito.
Parallelamente, il Presidente del Camerun ha amnistiato oltre 300 combattenti delle Forze di Difesa del Camerun Meridionale (FDCM), movimento separatista delle regioni occidentali anglofone. Infatti, a partire dal 2016, il FDCM ha lanciato una campagna indipendentista volta alla creazione del cosiddetto Stato dell’Ambazonia, formato dalle regioni a maggioranza anglofona del Paese, denunciando le politiche discriminatorie della maggioranza francofona. Gli scontri tra governo ed insorti sono sfociati in una autentica guerra civile che ha provocato oltre 3000 morti e 500000 profughi.
L’amnistia è stata concessa nel contesto del più ampio tentativo di riconciliazione nazionale tra governo e FDCM, iniziato lunedì 30 settembre con l’apertura della “Conferenza di Dialogo Nazionale”. Nonostante i segnali di apertura, tra cui l’adozione di una risoluzione che dovrebbe concedere maggiore autonomia alle regioni anglofone, siano stati accolti favorevolmente anche dai partiti dell’opposizione, i ribelli separatisti hanno avanzato richieste per il rilascio di altri 5.000 prigionieri e il ritiro delle truppe nazionali dalle regioni anglofone, entrambe viste come precondizioni essenziali per la credibilità dell’iniziativa di dialogo nazionale.
L’infruttuoso incontro di Stoccolma: all’angolo il dialogo sul nucleare tra Corea del Nord e Stati Uniti
Lo scorso 5 ottobre a Stoccolma si è tenuto un nuovo incontro tra le delegazioni di Stati Uniti e Corea del Nord per cercare di portare avanti la trattativa relativa al programma nucleare di Pyongyang. Il negoziato, giunto a tre mesi dalla stratta di mano tra il Presidente Trump e il leader Kim Jong-un nella Zona Demilitarizzata, si è però concluso con l’ennesimo nulla di fatto. Quello svedese rappresenta l’ennesimo tentativo infruttuoso di implementare la dichiarazione congiunta firmata dai due leader a Singapore nel giugno 2018, in uno storico incontro che avrebbe dovuto avviare un processo di pacificazione della Penisola Coreana.
Lo stallo negoziale verte sull’impossibilità di mediare le diverse precondizioni con cui i due Paesi si siedono al taolo. Mentre la Corea del Nord, di fatti, considera il ritiro delle sanzioni economiche condizione preliminare alla discussione sulla denuclearizzazione, gli Stati Uniti non intendono fare concessioni prima di un’effettiva riduzione della capacità atomica nordcoreana.
A seguito del meeting, i negoziatori nordcoreani hanno paventato l’idea di interrompere il negoziato a causa della rigidità dell’atteggiamento della controparte. Nonostante il governo di Stoccolma abbia rinnovato un invito alle due parti per ospitare un nuovo round negoziale tra un paio di settimane, la finalizzazione di un accordo non sembra affatto esser vicina. Se il Presidente Trump, di fatti, potrebbe avere un interesse elettorale nell’intestarsi un accordo di tale portata, tuttavia la Casa Bianca continua a nutrire seri dubbi sulle reali intenzioni di Pyongyang. La cautela sembra il frutto del timore delle conseguenze che una posizione troppo permissiva potrebbe avere non solo sulla sicurezza della Penisola Coreana, ma anche su altri due importanti tavoli negoziali, quello riguardante il ritiro delle truppe dall’Afghanistan e, soprattutto, quello sul nucleare iraniano
HONG KONG-CINA: nuova escalation di violenza dopo il divieto di utilizzo delle maschere
Alla mezzanotte di venerdì 4 ottobre, ad Hong Kong è entrato in vigore la così detta legge anti-maschera, grazie all’invocazione da parte del Capo dell’Esecutivo, Carrie Lam, dell’Ordinanza di Legge di Emergenza, la normativa che assegna al governo poteri eccezionali in situazioni di parti-colare crisi di sicurezza.
Il provvedimento, che prevede l’incarcerazione fino a un anno per chiunque violi il divieto di circo-lare a volto coperto, ha suscitato la dura reazione dei manifestanti che hanno interpretato la mossa del governo come l’ennesimo giro di vite a discapito della liberta di espressione operato dalle autorità locali. Nella giornata di domenica, in migliaia sono scesi in strada a manifestare contro la nuova legge e in diverse occasioni le proteste sono degenerate in episodi di violenza urbana.
L’escalation aveva avuto inizio già la scorsa settimana, quando l’uccisione di un giovane manife-stante da parte della polizia aveva dato inizio a duri scontri tra le piazze e le forze dell’ordine.
In un momento in cui Lam non esclude la possibilità di rivolgersi a Pechino per sedare le proteste, l’adozione di misure sempre più stringenti da parte dell’esecutivo potrebbe portare ad un ulteriore irrigidimento delle posizioni della piazza. A fronte di una progressiva chiusura degli spazi di espressione a disposizione, infatti, le frange più oltranziste del movimento popolare potrebbero adottare in modo sempre più sistematico l’uso della violenza, come nuova forma di rivendicazione delle proprie istanze di rivoluzione civile.
SIRIA: il disimpegno statunitense apre la strada all’intervento di Ankara
A margine di una telefonata tra il Presidente americano Trump e l’omologo turco Erdogan, avvenuta lo scorso 6 ottobre, la Casa Bianca ha ordinato il ritiro delle truppe dal confine tra Siria e Turchia, dando così il via libera all’ingresso dell’esercito turco in territorio siriano ad est dell’Eufrate, in un’area finora del tutto sotto controllo delle milizie curde del YPG.
Per la Turchia l’operazione è funzionale a creare una zona di cuscinetto tra i curdi siriani e il PKK, il Partito dei Lavoratori Curdo che è attivo sul suolo turco ed è considerato gruppo terrorista da Ankara. Inoltre Erdogan punta a rimpatriare in quell’area una parte dei 3,5 milioni di profughi siriani presenti nel Paese, alimentando i timori curdi di un’alterazione degli equilibri demografici della zona.
Vi sono invece molte perplessità sulle motivazioni americane. Se da un lato la Casa Bianca deve rinsaldare le relazioni con la Turchia, rese problematiche da posizioni sempre più inconciliabili sulla questione siriana, una mossa del genere rischia di minare completamente il rapporto con i curdi. La cooperazione con il YPG d’altronde appare ancora fondamentale sia per prevenire un rafforzamento dello Stato Islamico (oltre 10.000 prigionieri dello ISIS sono in mano alle milizie curde), sia soprattutto per mantenere una presenza sul territorio siriano e monitorare quel corridoio terrestre che unisce Teheran ai suoi alleati in Siria e Libano.
Washington aveva finora cercato di bilanciare le posizioni delle due fazioni, acconsentendo, lo scorso agosto, all’inizio di pattugliamenti congiunti con Ankara nella zona, in modo da non lasciare l’iniziativa completamente in mano alla Turchia. Con la decisione di domenica gli Stati Uniti sembrano rinunciare al ruolo di mediatore tra le due istanze, con pesanti ricadute sull’instabilità nell’area.
Le elezioni legislative in Tunisia: un puzzle di complessa risoluzione
Domenica 6 ottobre i cittadini tunisini sono stati chiamati alle urne per rinnovare i 217 seggi del Parlamento. Molto bassa l’affluenza, attestatasi al 41,32%, quasi 30 punti in meno alla scorsa tornata delle legislative (69%). Il dato della partecipazione giovanile (9% nella fascia 18-25 anni) ha fortemente contribuito a tale crollo.
La tornata elettorale appena conclusa porta in dote un ridimensionamento significativo per i partiti cardine dell’esecutivo uscente, ossia la formazione islamista moderata Ennahda ed il raggruppamento laico Nidaa Tounes.
Ennahda risulta comunque primo partito del Paese (23,94% e 52 seggi), nonostante una flessione di oltre 4 punti percentuali. Il percorso di moderazione intrapreso da Ennahda sembra aver scontentato parte della sua base di consenso, in parte confluita verso la nuova coalizione al-Karama (9,67 % e 21 seggi), formazione fedele ai dettami dell’islamismo politico, anche con accenti estremisti.
Decisamente peggiore la performance di Nidaa, indebolita da frequenti divisioni nell’arco della scorsa legislatura e crollata, con il voto di domenica scorsa, da 81 a soli 3 seggi. A raccoglierne l’eredità è principalmente Qalb Tounes (17,51% con 38 seggi), partito del candidato Presidente Nabil Karoui, già tra i fondatori di Nidaa. Altre formazioni laiche ad ottenere un risultato di un certo rilievo sono Attayar (10,14 % e 22 seggi), partito d’ispirazione socialdemocratica, il partito nazionalista arabo Movimento del Popolo (7,37% e 16 seggi), e la formazione Tahya Tounes del Primo Ministro uscente Youssef Chahed (6,45 % e 14 seggi).
In questo quadro, domenica 13 ottobre avrà luogo il ballottaggio per l’elezione del Presidente della Repubblica, figura di garanzia istituzionale e quindi fondamentale per indirizzare la formazione dell’esecutivo. A sfidarsi saranno il giurista Kaïs Saïed (18,4% dei consensi al primo turno), indipendente ma in grado di attirare il consenso dei partiti islamisti, ed il già citato Karoui (15,6%). Il vincitore dovrà immediatamente impegnarsi in un complesso lavoro di mediazione tra le diverse istanze politiche, nel tentativo di offrire al Paese un esecutivo in grado di risolvere gli endemici problemi economici e sociali che scuotono la Tunisia. Si tratta di un compito complesso alla luce della frammentazione dello spettro parlamentare, più accentuata rispetto alla scorsa legislatura. Se nel 2014 era stata sufficiente una “grande coalizione” tra Nidaa e Ennahda, poi rafforzata dal Patto di Cartagine grazie all’abile lavoro di convincimento portato avanti dall’ex Presidente Beji Caid Essebsi, oggi la frammentazione parlamentare impone necessariamente di trovare fin da subito un perimetro più ampio per la maggioranza.