ATLAS #8 Polveriera Iraq
Nel Focus di ATLAS di questa settimana parliamo di:
Polveriera Iraq
Gli altri approfondimenti sui fatti di politica internazionale:
BURKINA FASO: uccise 37 persone in un attacco armato a convoglio minerario
THAILANDIA: sospetti separatisti attaccano un posto di blocco della polizia
TAGIKISTAN: lo Stato Islamico torna a colpire
YEMEN: l’accordo di Riyadh apre uno spiraglio per la fine del conflitto
BURKINA FASO: uccise 37 persone in un attacco armato a convoglio minerario
Il 7 novembre, un gruppo armato ha assaltato un convoglio che trasportava tecnici minerari della società canadese Semafo e della società australiana Perenti nei pressi della miniera aurifera di Bourgou, nella provincia orientale di Tapoa. Il bilancio dell’attacco è di circa 40 morti e 60 feriti. Si tratta del peggior incidente ai danni di personale straniero nel Paese nonché di uno dei più gravi in tutta la regione del Sahel-Sahara. E’ la terza volta che i convogli di Semafo – Perenti vengono attaccati nell’area di Bourgou. In due precedenti occasioni, ad agosto e dicembre del 2018, simili assalti avevano causato la morte di 11 persone. Inoltre, circa un mese fa, anche la miniera aurifera di Dolmane, nella provincia centro-settentrionale di Soum, era stata attaccata da miliziani armati che avevano ucciso oltre 20 persone.
Benché non sia giunta alcuna rivendicazione dell’attentato di Bourgou, i principali indiziati dall’attacco sono i gruppi jihadisti attivi nel Burkina Faso, in particolare Ansarul Islam, movimento nell’orbita di al-Qaeda, e la branca sahariana dello Stato Islamico. Questi ultimi, infatti, sono stati i responsabili dell’attacco di Dolmane.
Qualora una delle due sigle jihadiste rivendicasse l’attentato di Bourgou, ci si troverebbe di fronte al consolidamento nel trend di crescita del terrorismo burkinabè. Infatti, sinora i movimenti attivi nel Paese si erano resi protagonisti di due azioni spettacolari nella capitale Ouagadougou, nel 2016 e nel 2017, salvo poi concentrarsi in attività locali nelle regioni rurali. L’offensiva sistematica contro obbiettivi economici come le miniere d’oro, principale risorsa del Burkina e fulcro degli investimenti e degli interessi occidentali nel Paese, testimonierebbe la volontà di innalzare il livello delle operazioni e, di conseguenza, la pressione sulle istituzioni.
THAILANDIA: sospetti separatisti attaccano un posto di blocco della polizia
Nella giornata di mercoledì 6 novembre, 15 persone (1 poliziotto e 14 civili) sono rimaste vittime di un attacco ad un checkpoint nella provincia di Yala. Nonostante l’attacco non sia stato rivendicato, è possibile collegarlo alle operazioni dei separatisti locali, probabilmente affiliati al Barisan Revolusi Nasional (BRN), tra i maggiori gruppi operanti nella regione assieme al Pattani Islamic Mujahideen Movement, al Runda Kumpulan Kecil e al Patani United Liberation Organisation. Questi rivendicano l’indipendenza delle tre provincie thailandesi di Pattani, Yala e Narathiwat, che assieme alla provincia malese del Kelantan, erano un tempo parte del Sultanato di Pattani. La popolazione di queste province appartiene per l’80% all’etnia del Malay, di religione islamica, a differenza della maggioranza del Paese prevalentemente buddista. I Malay, di conseguenza, rappresentano la spina dorsale dei movimenti indipendentisti.
I gruppi Malay si battono contro l’assimilazione culturale e non hanno mai cessato le rivendicazioni separatiste sin dalla nascita della Tailandia moderna. Le attività anti-governative si sono intensificate a partire dall’ottobre 2004 a seguito della dura risposta della polizia ad una manifestazione a sostegno di 6 separatisti arrestati dal governo centrale durante la quale morirono 85 persone di etnia Malay. Da quel momento, la repressione statale nei confronti dei Malay è aumentata e le autorità hanno imposto la legge marziale nelle province a rischio. A 15 anni di distanza, il conflitto tra governo tailandese e movimenti separatisti ha causato più di 7.000 vittime.
Con l’obiettivo di proteggere le comunità locali dalle azioni violente dei separatisti, lo Stato thailandese ha creato milizie di auto-difesa, impegnandosi nella protezione dei villaggi e in atatcchi alle forze armate e alle istituzioni politiche tailandesi.
Sebbene le rivendicazioni dei Malay abbiano per lo più una base etno-nazionalistica, non è da escludere che l’esacerbarsi delle tensioni ed il prolungamento del conflitto possa favorire la propaganda jihadista in forte ascesa nel sud-est asiatico. Questa potrebbe fare breccia in una delle aree dove le disparità economiche e di opportunità tra centro e periferia del Paese sono maggiormente evidenti.
TAGIKISTAN: lo Stato Islamico torna a colpire
Nella notte di mercoledì 6 novembre, un commando armato ha attaccato un checkpoint della polizia tagika al confine con l’Uzbekistan, circa 50 chilometri a sud della capitale Dushanbe, provocando la morte di 17 persone. Sebbene non sia avvenuta alcuna rivendicazione, le autorità tagike hanno attribuito la responsabilità dell’attentato allo Stato Islamico. L’attacco è stato perpetrato nel giorno in cui il Presidente Rakhmon si trovava in visita ufficiale in Svizzera e nel momento in cui Tagikistan e Uzbekistan avevano raggiunto un accordo sulla definizione dei loro confini dopo una disputa che si trascinava sin dal 1991, anno dell’indipendenza dei due Paesi in seguito all’auto-scioglimento dell’Unione Sovietica.
Lo Stato Islamico risulta molto attivo nel Paese e già nello scorso maggio aveva fomentato una rivolta carceraia durante la quale erano morte 29 persone. La propaganda jihadista promossa dal Califfato del defunto al-Baghdadi ha guadagnato una rapida diffusione nella regione tagika, soprattutto a causa della precaria condizione economica in cui versa lo Stato e della vicinanza con l’Afghanistan ed Uzbekistan, due teatri dove la presenza di movimenti terroristici è ben radicata. A questo proposito, bisogna ricordare come diverse centinaia di foreign fighters centrasiatici, provenienti dai cosiddetti Stan-countries, abbiano rimpolpato le file dello Stato Islamico in Siria e Iraq nel corso degli ultimi anni. Proprio il ritorno in patria di questi combattenti potrebbe innalzare il livello capacitivo e qualitativo dell’insorgenza jihadista tagika e di tutta la regione centrasiatica, incrementando i già numerosi fattori di instabilità dell’area.
YEMEN: l’accordo di Riyadh apre uno spiraglio per la fine del conflitto
Dopo due mesi di negoziati, lo scorso martedì 5 novembre, nella capitale saudita, è stato concluso un accordo di pace tra il governo yemenita internazionalmente riconosciuto, presieduto da Hadi e supportato dall’Arabia Saudita, e il Consiglio di Transizione del Sud (STC), un gruppo separatista meridionale guidato da al-Zubaidi e supportato dagli Emirati. Secondo l’accordo di Riyadh, il movimento separatista sarà integrato per la prima volta nella compagine governativa yemenita e le Forze Armate del Sud saranno poste sotto l’autorità del Ministero dell’Interno e quello della Difesa. Inoltre, Hadi potrà tornare nella città meridionale di Aden, dove si trovava la sede provvisoria del governo, sottratta al suo controllo dalle milizie dell’STC in agosto.
Infatti, fin dallo scoppio della guerra nel 2015, queste due fazioni erano alleate contro la comune minaccia dei ribelli Houthi, ma hanno finito per scontrarsi a causa delle loro contrastanti priorità politiche. L’STC si batte da tempo per la restaurazione di uno Stato indipendente nello Yemen del sud, mentre Hadi ha interesse a mantenere unito il Paese, al massimo concedendo l’instaurazione di un assetto federale.
Per quanto sia un passo avanti nella stabilizzazione dello Yemen, questo accordo non risolve davvero la netta discordanza di interessi sul futuro dello Yemen. Un problema che potrebbe ripresentarsi già nell’immediato futuro, frenando ogni sforzo diplomatico. Inoltre, anche se l’accordo di Riyadh di fatto riduce l’intricata frammentazione politica interna, ponendo fine, almeno momentaneamente, ai contrasti tra due dei principali attori dell’area, esso non marca affatto la fine della guerra vera e propria, quella che vede la riunificata coalizione meridionale supportata da Arabia Saudita ed Emirati combattere contro gli Houthi, stanziati nel nord del Paese.